Alcune esperienze con i Rom
Ø Da 20 anni accanto ai Rom…..con cinque pani e due pesci (Edo Raffaelli)
Ø Esperienze di accoglienza (Suore di Maria Riparatrice)
Ø Stare accanto a chi vuole cambiare (Ivana Carmagnini)
Ø Due opportunità di intervento (Maria e Piero Bosi)
Ø Piccole esperienze (Mina Chiarlitti)
Ø Alunni rom nella scuola elementare (Margherita Brunello)
Ø Bambini divisi – l’esperienza con i ragazzi rom nella scuola media “Pescetti” (Cecilia Fraticelli)
Ø La famiglia di Michela e Moreno (Francesca Bartoletti)
Ø “Un giorno li ho incontrati” (Rosalba Marino)
Ø L’esperienza con S (Laura Giachetti)
Due opportunità di intervento (Maria e Piero Bosi)
I nostri primi contatti con i rom del Campo nomadi di Sesto sono cominciati ormai otto anni fa. Quali i sentimenti di allora? Diffidenza, paura, insieme a un gran desiderio , in coerenza con il Vangelo, di essere utili a queste persone emarginate dalla nostra società, di fare qualcosa che favorisse la loro “integrazione”. Obiettivo che da subito si è rivelato non solo lontano, ma di difficile definizione.
Abbiamo ben presto capito che l’aiuto prettamente economico va limitato ai minimi termini perché esso innesca un meccanismo perverso: le richieste diventano sempre più pressanti e assillanti e il gagè che aiuta diventa ai loro occhi solo l’ingenuo da spremere. Noi, come famiglia, abbiamo colto due opportunità che si sono offerte per intervenire in modo diverso:
– per facilitare la frequenza del doposcuola della parrocchia a due ragazzi rom delle medie li abbiamo ospitati a pranzo una volta la settimana per diversi mesi. Spesso passavano da noi anche il resto della giornata. Uno di questi ragazzi ( Enrico, nome di fantasia) è stato accolto da noi in affido quando aveva quindici anni ed è rimasto con noi fino a quando ne aveva quasi diciotto;
– abbiamo offerto la possibilità di lavorare come collaboratrice domestica per un giorno alla settimana a una donna del campo.
Che dire di queste due esperienze?
Pensiamo con molta amarezza alla prima , quella dell’affido. Noi abbiamo creduto giusto e necessario comunicare certi valori, per esempio quelli dell’istruzione o della collaborazione nella gestione della vita familiare. Da parte di Enrico, dopo un primo momento di adesione, c’è stata una progressiva chiusura, anche affettiva. Ricordiamo ancora come nelle riunioni delle famiglie affidatarie ci sentivamo delle mosche bianche: gli unici o quasi ad avere buoni rapporti con la famiglia di origine, ma un figlio affidato che soffriva al momento di rientrare nella nostra casa .
A compromettere in maniera decisa il nostro rapporto ci sono stati soprattutto due episodi di furto di denaro in casa nostra a distanza di alcuni mesi l’uno dall’altro. Il primo lo abbiamo scoperto dopo otto mesi che era da noi. Il secondo ha preceduto di poco il suo ritorno al campo. Mai per questi fatti è stata messa in discussione da parte nostra la continuazione dell’affido, ma il cambiamento indispensabile di certe regole e condizioni ( per esempio lo svolgimento di certi lavoretti o la rinuncia alla paghetta ) per avviare la restituzione della somma rubata ha fatto precipitare il ragazzo in una situazione tale di disagio, ribellione e soprattutto sofferenza , da farci decidere di anticipare il suo rientro al campo. Il progetto che, anche senza ammetterlo esplicitamente, era quello di aiutarlo a costruirsi una vita fuori dal modello “zingaro”, ci è parso fallito. Enrico ha lasciato non solo la scuola, ma anche l’attività sportiva che seguiva in apparenza con grande piacere, ed è rientrato pienamente nei ritmi e nelle abitudini degli adulti maschi della sua etnia .
A che cosa è servito il tempo trascorso insieme? Ci piace ricordare le parole di incoraggiamento dette dallo psicologo che lo seguiva : il vostro è stato un “accompagnamento culturale”, come a dire che non potevamo pretendere di “guidarlo”, ma che forse, qualcosa del suo viaggio con noi, un giorno Enrico lo ricorderà.
Prima di raccontare l’altra esperienza, tuttora in corso, alcune riflessioni :
ci siamo resi conto quasi subito che la diversità tra il nostro mondo e quello dei Rom è enorme e che da una parte e dall’altra non c’è volontà di superarla. Da parte nostra c’è tutto sommato l’idea che convenga tenerli dove sono e come sono, lontani, possibilmente “invisibili”, limitando il più possibile i danni con qualche intervento, di assistenza o di repressione, a seconda dei casi. Ma anche i Rom non aspirano a far proprio il nostro modo di vivere, se non negli aspetti deteriori, di spreco e di adeguamento alle mode correnti. Chiedono, anzi pretendono aiuti, ma quando si domanda loro una frequenza regolare della scuola o una ricerca seria di lavoro, per non parlare del rispetto della legalità, non si ottengono risposte. E si conferma così il giudizio che con loro non c’è possibilità di cambiamento
Noi abbiamo pensato che questo circolo vizioso andava interrotto. Abbiamo avviato, con questo scopo, contemporaneamente due tipi di iniziativa:
La prima è stato una specie di “laboratorio di cucito”, realizzato grazie alla collaborazione preziosa di due amiche sarte. Per alcuni mesi nella nostra casa, una volta alla settimana, sono venute due, qualche volta tre, donne rom: portavano le loro gonne da aggiustare o le tende da sistemare. Erano incuriosite dall’abilità delle due amiche sarte, soprattutto nell’uso della macchina da cucire e godevano anche della compagnia di questo piccolo gruppo di donne. Si sperava che avessero la pazienza e la costanza di continuare a venire, così da acquistare piano piano una competenza che in prospettiva poteva essere anche una risorsa economica. Nel giro di qualche settimana, invece, le loro presenze hanno cominciato a farsi saltuarie e sempre più brevi, fino a interrompersi del tutto: abbiamo capito che era fuori dai loro schemi investire il loro tempo a imparare qualcosa che avrebbe avuto un ritorno economico chissà quando. Invece le donne rom, se vengono in paese, devono tornare al campo con qualcosa, soldi o roba. Oltre tutto saper cucire serve poco anche a loro stesse, per la facilità di avere continuamente indumenti usati, quelli che ad ogni cambio di stagione escono in grandi quantità dalle nostre case.·
Ha avuto un esito diverso l’altra esperienza, iniziata nello stesso periodo: abbiamo pensato di prendere in parola una delle donne rom che chiedeva di cercarle un lavoro, offrendole di lavorare da noi come colf. Un piccolo aiuto in casa ci serviva, e il fatto di non potere assicurare la donna in quanto priva di documenti era una difficoltà superabile perché a nero lavora comunque buona parte delle collaboratrici domestiche. La prima donna (Sabrina, nome di fantasia) ha lavorato circa due anni, ma quando le abbiamo chiesto di lasciare al marito la bambina, ormai grandicella, e di non portarla più con sé perché non le permetteva di lavorare, ha preferito non venire più.
Ormai da quattro anni viene una sua parente (Luciana, altro nome di fantasia), che abbiamo potuto assumere regolarmente perché in possesso dei documenti. Regolarmente viene a fare le sue poche, ma sicure ore di lavoro. Ha imparato quasi subito che deve avvertire se non può venire, che ha diritto alla tredicesima, alle ferie, alla liquidazione; di conseguenza, se ha bisogno di soldi, da noi non riceve elemosina, ma, se è il caso, l’anticipo su una voce del suo stipendio. Quando viene, io, Maria, sto in casa con lei e di solito facciamo insieme le pulizie. Confesso che all’inizio rimanevo per controllarla; ma ora lo faccio soprattutto per rispetto al legame di confidenza che si è venuto pian piano creando. E’ un legame sottile, ma è la cosa migliore che ci sembra di aver raggiunto
Piccole esperienze (Mina Chiarlitti)
Ogni tanto ho fatto uscire dal campo 2 bambini alla volta per esperienze adatte a loro: l’anno scorso uno spettacolo teatrale, una uscita solamente. Quest’anno un’ esperienza in SS.ma annunziata nell’ambito di una iniziativa di esposizione artigianale, ceramiche soprattutto. I bambini hanno partecipato ad un laboratorio con la creta, e mi sembravano abbastanza contenti. In genere anche molti degli “esclusi” vorrebbero tanto uscire, mi ero riproposta una sorta di turnazione. L’esperienza si è temporaneamente interrotta a causa dell’insensibilità delle famiglie rispetto alla esigenza dei bambini. Mi son proposta di fare una visita all’ultimo nato delle tre famiglie con cui sono stata in contatto finora, con un piccolo dono fatto da me.
Alunni rom nella scuola elementare (Margherita Brunello)
Sono Margherita Brunello e lavoro da 10 anni nella Scuola Primaria “L.L.Radice” di Sesto Fiorentino. Da 8 anni sono anche la figura strumentale della scuola primaria e dell’infanzia che si occupa dell’accoglienza e dell’integrazione degli alunni stranieri e rom. Inoltre il mio compito è anche quello di coordinare l’attività di alfabetizzazione e le attività a carattere interculturale che si svolgono a scuola.
I bambini rom, una quarantina, che frequentano il nostro circolo, il 2° circolo didattico di Sesto Fiorentino che insieme all’Istituto Secondario Pescetti ha dato forma al 1° Istituto Comprensivo della nostra città, provengono essenzialmente dal campo rom di Via Madonna del Piano, nella zona una volta paludosa tra il centro commerciale Coop, il Polo Universitario e l’areoporto di Peretola. Inoltre ci sono alcuni bambini che non vivono all’interno del campo. Al mio arrivo al circolo, esisteva un progetto di sostegno ai bambini del campo (tutor a scuola) e c’era una cassa scolastica che sosteneva le loro spese per le uscite e le gite scolastiche.
Inoltre il progetto intercultura “Per crescere insieme”, insieme alle ore di compresenza in classe, permettevano alle insegnanti di aiutare i bambini a recuperare le loro lacune dovute, tra l’altro, alle assenze e ad uno scarso impegno extrascolastico. I bambini ricevevano il materiale didattico dall’assistente sociale che si occupava del campo (in particolare la figura di questa assistente, Marina Bacciotti, che ha lavorato per anni al campo. è stata fondamentale nei rapporti scuola – insegnanti e famiglie, un punto di riferimento stabile).
Nel corso degli anni la situazione è peggiorata: anche se quest’anno abbiamo potuto fornire ai bambini di materiale didattico (quaderni, colori, penne, colle, gomme….) con un finanziamento atteso da lungo tempo, non esiste più il contributo per le uscite e le gite (quindi sono le insegnanti o i volontari o gli altri genitori che si accollano le loro spese); è aumentato il numero delle assenze degli alunni, in particolare le bambine diradano la frequenza già dalla 3^-4^ elementare per non frequentare del tutto la scuola secondaria. Inefficaci le denunce fatte alle autorità.
La scuola non ha più risorse (niente tutor, pochissime ore aggiuntive che risultano inefficaci soprattutto se i bambini non frequentano) e la conseguenza è che non ce la facciamo ad aiutare i bambini del campo, e le differenze con gli altri bambini si acuiscono invece di diminuire. Come sempre, e fortunatamente, ci sono persone splendide che dedicano energia e tempo a dare una mano, sia tra le insegnanti, che tra il personale non docente, sia fuori dalla scuola. Nel corso di questi anni, ho avuto 3 bambini rom nelle mie classi. Il primo, G, arrivato dalla Germania in seconda elementare, frequentava regolarmente ed è riuscito ad avere un percorso regolare per tutta la scuola primaria riuscendo a raggiungere un discreto livello nelle varie competenze ed un ottimo inserimento nella classe, anche se limitato al tempo scuola. Poi ho avuto J, una bellissima bambina, molto dolce. Ha “frequentato” con noi solo la prima; abbiamo deciso, con tanta sofferenza ma con l’appoggio anche dell’assistente sociale, di non promuoverla alla classe successiva in quanto il numero delle assenze era troppo alto. Volevamo trasmettere il messaggio “a scuola bisogna venire!” ma non sappiamo se poi sia stata una scelta giusta in quanto la bambina si è trasferita. E poi, infine, G, arrivata in 4^, già più grande di un anno e con tante difficoltà. Ha frequentato, in un anno una decina di giorni, ma nonostante questo numero così basso di presenze, abbiamo deciso di promuoverla in 5^ per tentare di non perderla del tutto.
Tentativo fallito: è venuta solo un giorno, controvoglia, con le nuove operatrici. Ha preso il suo zaino e non è più tornata. E io sono amareggiata e pessimista: ho visto quello che riuscivamo ad ottenere, vedo com’è la situazione ora e non posso dimenticare quelle bambine, di là dalla strada, che forse, a scuola, ci sarebbero venute, e volentieri.
Bambini divisi (Cecilia Fraticelli)
L’esperienza con i ragazzi Rom nella Scuola Media Pescetti
Nella nostra scuola sono presenti 11 ragazzi di etnia Rom, 3 femmine e 8 maschi. Delle bambine una sola frequenta con regolarità, le altre non sono quasi mai venute e quando sono venute hanno cercato di scappare dalla scuola o si sono nascoste dopo essere scese dal pulmino che le accompagna. I colloqui, le “sollecitazioni” da parte della scuola e delle autorità hanno prodotto solo la frequenza di qualche giorno.
Dei maschi alcuni non frequentano quasi, altri sono molto irregolari. Tutti presentano le difficoltà tipiche dei ragazzi di lingua straniera che devono studiare in una lingua che non possiedono completamente soprattutto nella forma scritta, a queste si aggiungono quelle dovute alla totale mancanza di studio a casa, che nella scuola media diventa un handicap importante, soprattutto per come la scuola è strutturata (5 o 6 ore in classe, il resto in casa).
Ad alcuni ragazzi è stato proposto un doposcuola da fare per un giorno alla settimana, con pranzo presso il doposcuola, ma una bambina preferiva non venire affatto in quel giorno, piuttosto che restare anche il pomeriggio. Ha desistito e non va al doposcuola. Per la prima volta in tanti anni quest’anno, soprattutto nei primi mesi, i ragazzi hanno tentato più volte di scappare dalla scuola dopo essere entrati. Qualcuno alla discesa dal pulmino si è nascosto fra le auto parcheggiate e non è entrato.
E per la prima volta, sempre all’inizio dell’anno, si sono ripetuti episodi di furti di oggetti dagli zaini o dalle giacche di alunni nelle classi. La riflessione che faccio più spesso, allora è questa: mi sembra che questi bambini si trovino in mezzo a due mondi: uno, al quale forse vorrebbero appartenere, quello dei coetanei che hanno tante cose, a cominciare dalla casa, al telefonino all’ultimo grido, al computer, alle scarpe firmate; l’altro, a cui appartengono, quello della famiglia, che chiede loro di essere adulti presto, di comportarsi da adulti, secondo un modello, però, che non può che essere al margine o fuori della società, un modello di adulto senza strumenti per intervenire e poter cambiare. Forse perché intervenire e cambiare significa radicarsi, discutere, mettersi in gioco, chiedere qualcosa dando in cambio qualcos’altro. E il “presto” implica anche il non avere la pazienza o il tempo per concludere gli studi, per i quali non si vede uno scopo. L’urgenza del vivere quotidiano è più forte della capacità di “perdere tempo a scuola”. Allora a scuola si va il meno possibile, possibilmente non ci si va affatto, ci sono cose più importanti da fare.
Alle medie, quando tutti i ragazzi cominciano ad essere insofferenti delle regole della famiglia e della scuola, quando si accorgono che il controllo è meno stringente che alle elementari, loro sono i primi a provare a fuggire, a svincolarsi, per un’illusione di libertà. Se non trovano poi adulti (genitori e insegnanti) che riempiano di senso questa esperienza, il gioco è fatto, la scelta viene naturale.
La famiglia di Michela e Moreno (Francesca Bartoletti)
Ho conosciuto la famiglia di Michela e Moreno (nomi di fantasia) nell’ottobre 2011 in seguito a richiesta al gruppo parrocchiale di una signora abitante in altro comune, che li aiutava da tempo e riteneva necessario un sostegno sul posto.
Il nucleo, proveniente dalla Romania, è composto dai due genitori entrambi molto giovani , un bambino di 8 anni, Roberto arrivato in Italia nella primavera 2011 e una bimba, Miriam di 4 anni, nata in Italia ( nomi di fantasia ); in seguito allo smantellamento del campo in cui vivevano sono stati accolti in via provvisoria in alloggio della Diocesi situato accanto alla parrocchia, in punto centrale della città e …“alla luce del sole”; hanno usufruito di un progetto della Caritas diocesana e il gruppo della Parrocchia se ne è preso c arico ritenendo che ne” valesse la pena”, cioè che fosse un investimento, in considerazione della giovane età della coppia e dei bambini; intorno al nucleo ruotano varie figure “di aiuto” ma a tuttora non è stato possibile realizzare una progettualità condivisa e interventi coordinati, salvo qualche avvio tramite raccordi telefonici.
Il padre ha una storia di malattie ed effettua periodici controlli all’Ospedale; la madre appare “vispa”, furba, subito pronta ad abbattersi per qualche contrarietà ma anche “vitale ”e comunque l’asse portante del nucleo; non ha parenti in Italia e dichiara una conflittualità con la propria madre che vive in Romania. Ben presto ho sentito il peso della situazione per le incalzanti richieste, a tutto campo, e per le telefonate continue di cosiddette emergenze, una sorta di approfittarsi ( es. accompagnamenti con l’auto con una modalità tipo taxi); nonostante che non abbia mai dato loro direttamente dei soldi ne hanno fatto richiesta in modo martellante fino ad essersi creata tra noi una situazione di frattura, poi rientrata.
Il nucleo ha ottenuto la residenza ed è inserito nella graduatoria per l’assegnazione di alloggio ERP; la madre afferma di voler lavorare e sembra che con i figli si ponga in modo costruttivo; entrambi i bambini frequentano con regolarità la scuola ( rispettivamente la 2°elem. e la scuola materna dove sono ben inseriti; sono ordinati nel vestiario e appaiono sereni.
Il mio intervento, anche per la presenza degli altri volontari, si è concretizzato in modo prevalente e continuativo nell’aiuto per i compiti e l’apprendimento di Roberto, che si mostra collaborativo e desideroso di imparare; gli piace leggere e va in biblioteca a prendere i libri in prestito, chiede di andare a musei , dimostra curiosità; questo aspetto a me personalmente fa tenerezza ed è anche di stimolo ma nello stesso tempo preoccupa per possibili delusioni o inceppi di varia natura cui Roberto potrebbe andare incontro. Da questo inverno poiché i compiti richiedono molto tempo, Roberto viene a casa mia dove si ferma diverse ore, con momenti anche di svago; penso di essere per lui un punto di riferimento anche se è piuttosto attento a non fare confidenze riguardanti la famiglia.
L’idea iniziale di affiancarmi alla giovane madre per un “appoggio” si è realizzata con “aggiustamenti” continui a causa delle difficoltà incontrate lungo la strada; anche un supporto educativo ritenuto necessario per favorire l’integrazione sociale a tutt’oggi non sono in grado di dire se si possa ritenere avviato ; inoltre ci sono modalità di porsi che a volte si configurano come diversità e rendono difficile la comunicazione come ad esempio. le continue richieste espresse anche come sfida, il modo di considerare le cose come una sorta di gioco (questioni di salute a parte); la comunicazione verbale è resa difficile dalla loro poca conoscenza della lingua italiana: spesso il nome di qualcosa viene espresso con un generico “quello” che non fa capire proprio niente; i due giovani hanno avviato una sorta di alfabetizzazione ma per ora i risultati sono scarsi.
Il mio rapporto con le due figure adulte non è esente da momenti di attrito e a volte di mio scoraggiamento; purtuttavia a tutt’oggi ritengo opportuno ed anche essenziale che la famiglia abbia degli aiuti; certo per il progredire della situazione nella direzione dell’inserimento sociale sarebbe fondamentale trovare un’occupazione lavorativa almeno alla giovane mamma, come lei richiede, e verificare fattivamente l’impegno che esprime a parole.
“Un giorno li ho incontrati”(Rosalba Marino)
Rivedo chiaramente il giorno che ho incontrato la famiglia C. mentre accompagnavo a scuola la piccola dei miei figli: mi si avvicina una donna di bassa statura, mora, dai capelli molto lunghi con grandi occhi scuri come onice nero, troppo grandi rispetto al viso; al suo fianco un uomo in camicia, affabile, gentile con sottili baffi neri….lui e la donna tenevano per mano Elisa, (il nome è di fantasia) 3 anni la loro terza figlia vispa, intelligente, socievole e curiosa.
Con la famigliola e la loro bambina entriamo nella stessa aula e un sottile velo di gioia fa da sfondo ad un nuovo incontro. Colpisce il legame tra loro: babbo e mamma di Elisa, la loro gioia per l’inserimento a “scola” della piccola era tangibile. Le maestre sono accoglienti e disponibili e rendono tutto più sempilce. Nei giorni successivi a quell’incontro fugace, seguono semplici scambi di notizie: non passava inosservata in classe la famigliola con la piccola Elisa.
Si avvicina la mamma che col suo sguardo cercava una specie di complicità femminile ed un grande desiderio di essere e soprattutto dimostrare che era come le altre mamme … Il passaggio successivo è stato il mio desiderio ma anche della mia bambina di incontrarle, per capire e conoscere la donna dai grandi occhi scuri e G dai baffi neri e sottili. A volte le occasioni che traducono i nostri desideri sono espresse dalla voce dei bambini, che ci propongono insieme di andare alle giostre. Dalle mie esperienze precedenti di volontariato non sempre ricevevo una risposta e una sintonia così forte e immediata. Mi ha colpito la grande dignità che ho poi ritrovato in loro, in diverse occasioni nei mesi e negli anni successivi. I nostri incontri sono stati in un primo periodo dettati dall’esigenza delle bambine di stare insieme, ma poi ho cercato, per quanto possibile, di strutturarli: quindi andavamo a giocare in quella che allora era la loro casa (accoglienza Caritas di Sesto Fiorentino).
La strada in questi anni è stata lunga e difficile. In quel periodo la mamma e la bambina erano ospiti della Caritas, da cui sono andati via spesso dopo brevi periodi di permanenza perché l’accoglienza offerta, evidentemente esulava dalle loro abitudini di vita talvolta primordiali. Ogni anno a Maggio tornavano a Bucarest, e da lì rientravano a Novembre inoltrato … come rondini in migrazione. Elisa ha sofferto molto della discontinuità della frequenza scolastica. Nel Dicembre 2011 durante una cena insieme a casa nostra la lieta notizia: S aspettava il suo quarto figlio. Nasce N il 4/7/2012 il problema si ripresenta…..alle dimissioni dall’ospedale la domanda ormai vecchia: dove va la mamma con il bambino? Vengono allertati i servizi sociali che provvedono a contattare il “Pozzino”, struttura d’accoglienza per mamme e bambini.
Pomeriggio caldo e afoso fiorentino, breve tappa a casa, pranziamo insieme, i miei ragazzi felicissimi di avere il piccolissimo N in casa: uno ci accoglie con il pranzo pronto, la maggiore organizza il fasciatoio per il cambio e la piccola, entusiasta di essere con Denise e con il neonato. Si parte la sera per il Pozzino. Anche il Pozzino e le loro suore ci diventano familiari: trascorriamo con loro diversi pomeriggi estivi. Dopo il nostro rientro dalle vacanze 2012 prima telefonate continue, poi la notizia che sarebbero partiti per Bucarest per prendere M, secondogenito diciottenne. Rientro anche questa volta atteso, e ritardato ai primi di Dicembre, con disappunto dei volontari e delle insegnanti.
Mi preme infine raccontare le ultime esperienze insieme: Saverio, un amico comune, durante una breve permanenza nella loro dimora di Bucarest gira un video per testimoniare il loro stile di vita in Romania, molto più disagiato ed in condizioni di emarginazione sociale assoluta rispetto all’Italia. Dalla proiezione del video segue l’idea di fare un corso di alfabetizzazione rivolto ad adulti Rom. Prende corpo l’iniziativa volontaria ed informale e andiamo avanti da Gennaio 2013. Partecipa la famiglia tutta insieme ad altre 4 coppie di etnia Rom. Entusiasti dell’iniziativa si realizzano percorsi di scrittura semplici ed elementari. Inoltre si effettuano brevi rappresentazioni teatrali in cui ciascuno di loro mimava di entrare in uffici pubblici, farmacie oppure in supermercati esprimendo in modo corretto richieste, acquisti consapevoli. Molte vote è emerso che nel rapporto con l’esterno la consapevolezza e la correttezza delle richieste di prodotti veniva meno.
Infine, sui loro quaderni colorati, colore diverso per ciascun membro della famiglia, scrivevano e disegnavano con parole semplici ciò che avevamo rappresentato insieme…. Purtroppo la nostra relazione d’amicizia e di aiuto si è per ora interrotta….a causa della loro partenza improvvisa e di tante bugie di S, utili forse alla sopravvivenza, ma dannose alla relazione di fiducia.
L’esperienza con S (Laura Giachetti)
Non e’ facile scrivere di S. e del mio rapporto con lei e la sua famiglia in questi ultimi 18 mesi. La sensazione di fondo e’ quella di un non-incontro, della incapacita’ da parte mia di capire in qualche modo i loro codici di comportamento, della impossibilita’ oggettiva di risposta ai loro bisogni ma anche della insofferenza rispetto a un atteggiamento ricorrente di richieste sempre crescenti. Conoscevo S. di vista perche’ la vedevo chiedere l’elemosina davanti alla chiesa della mia parrocchia e al mercato di Sesto, insieme al marito e talvolta alla bambina di 5-6 anni, D.
D. era stata accompagnata in un percorso scolastico e sanitario da alcuni operatori e in particolare da due famiglie di Sesto, completando il programma di vaccinazioni della prima infanzia ed accedendo ad un scuola elementare di zona. I genitori erano ambedue analfabeti. Il mio rapporto con il mondo dei Rom, nonostante una buona dose di curiosita’ acuita da alcuni incontri sull’argomento ai Corsi per la Mondialita’ presso il Centro Missionario, era improntato a una certa diffidenza: soprattutto mi infastidiva il tono lamentoso delle richieste, e il tono sempre crescente delle richieste ogni volta che si rispondeva positivamente. Quindi non avevo un personale buon rapporto. E tutto questo mi metteva puntualmente in crisi, per la convinzione che i Rom siano molto spesso gli ultimi degli ultimi in questa societa’.
La gravidanza di S. (la quarta, a circa 38 anni che pero’ sembrano molti di piu’) ha costituito l’occasione per approfondire il rapporto con lei. In quel periodo (tardo autunno 2011) S. era ospite presso la Casa S. Chiara a Sesto con la bambina. La rigidita’ del clima rendeva insopportabile la vita in baracca e anche il marito era stato accolto , in una struttura per uomini, a Calenzano. La famiglia era cosi’ in quel periodo divisa. La mancanza di strutture per accoglienza temporanea di nuclei familiari in difficolta’ e’ certamente un grosso problema.
S. non stava bene ed era convinta in quei giorni di avere una brutta malattia, pertanto le suore mi hanno interpellato come medico internista. Il soprappeso di S. mascherava la gravidanza ormai al 4° mese, ma un rapido controllo presso un’amica ginecologa molto disponibile ha permesso di chiarire la situazione. S., mentre usciva dalla stanza di visita dicendo con voce stentorea “E’ solo un bambino!” mi ha fatto molta tenerezza. Da quel momento ho accompagnato S. nel percorso di visite presso il consultorio ASL di Sesto. Peraltro mi sono resa conto che non c’era neppure tutto il bisogno di accudimento che immaginavo: S., per quanto analfabeta, era perfettamente in grado di districarsi con appuntamenti e sedi di visita, e in occasione di un prelievo di sangue ho dovuto richiamarla al rispetto della fila perche’ la precedenza pèr le gravide e’ prevista solo nel terzo trimestre. In occasione della prima ecografia, allo IOT, non ho potuto accompagnarla, ma S. se l’e’ cavata benissimo, ed e’ tornata da sola allo IOT anche per le successive ecografie.
Un momento particolarmente delicato è stato il controllo ecocardiografico fetale, prescritto perche’ un figlio di S. ormai grande, all’epoca in Romania, era affetto da cardiopatia congenita, per la quale a suo tempo S. e il marito avevano rifiutato l’intervento prospettato dai cardiologi del Meyer.. S. in quella occasione arrivo’ accompagnata dal marito, di cui avevamo sollecitato la presenza vista la delicatezza del momento e la possibilita’ di una diagnosi di cardiopatia. E’ stato bello tirare tutti insieme un respiro di sollievo dopo che la dottoressa ha espresso tranquillita’ sull’esito dell’esame. E’ stato forse l’unico momento in cui ho avuto la sensazione della possibilita’ di superamento delle reciproche barriere. Il marito di S. ha voluto in tutti i modi offrirmi una cioccolata calda alla macchinetta.
Passato il freddo piu’ intenso, il marito ha lasciato la struttura che l’ospitava senza concordarlo con gli operatori ed e’ tornato alla baracca. Di li’ a poco anche S., apparentemente per non lasciarlo solo (il marito ha una dubbia riduzione dell’acuita’ visiva) anche S. ha fatto lo stesso, portando con se’ la piccola D. Lo ha fatto in sordina, portando via le sue cose nei giorni precedenti e non avvertendo ne’ le suore ne’ le operatrici, con le quali S. pareva avere stabilito un buon contatto, ne’ le due famiglie che ne avevano da tempo seguito il percorso. Cosi’ la baracca ha accolto l’ultima fase di gravidanza di S. , mentre la ricaduta sulle presenze a scuola e sull’apprendimento della bambina e’ stata pesante. Inoltre risultava che S. fumasse durante la gravidanza, nonostante inviti pressanti a non farlo. Fortunosamente il bambino, nato pretermine con cesareo d’urgenza, non ha subito conseguenze. Ma le precarie condizioni igienico sanitarie in baracca e la sua dislocazione lontano dall’abitato, in un luogo difficile da trovare anche da parte di un’ambulanza , avrebbero potuto avere ricadute severe sul piccolo.
Sono andata alla Maternita’ di Careggi a trovare lei e il piccolo N., ma dentro di me non avevo smaltito l’arrabbiatura per il comportamento di S. nel lasciare con quella modalita’ la struttura, per il rischio a cui aveva esposto il bambino e per il peggioramento di vita della piccola D. D. nei mesi successivi ha ricominciato ad accompagnare i genitori in accattonaggio ed ha eseguito, non si sa se spontaneamente o su istigazione, un piccolo furto in chiesa. Durante l’estate la famiglia e’ tornata per un periodo in Romania, apparentemente per il peggioramento clinico di una quarta figlia, emopatica, che vive in Romania coi nonni.Si sono susseguite pressanti richieste telefoniche di aiuto in denaro ; il rientro in Italia è avvenuto molto tardi rispetto all’avvio dell’anno scolastico, il che ha di nuovo pesantemente penalizzato la bambina.
In primavera si e’ reso necessario un piccolo intervento ginecologico per S.. Il tutto e’ coinciso con la decisone di sgombero del piccolo campo abusivo ove la famiglia si era trasferita. Il prospettato possibile invio, tramite l’assistente sociale, in qualche struttura protetta per consolidare il processo di guarigione non e’ pero’ andato a buon fine, oltre che per la difficolta’ oggettiva di trovare rapidamente una sede, anche per la ferma opposizione di S., che rifiutava ogni soluzione, anche temporanea, che la dividesse dal marito.Di li’ a poco S. e’ tornata in Romania con i due figli piccoli.. Il marito e’ rimasto a Sesto, e mi ha parlato di un ulteriore intervento che S. dovrebbe subire in Romania, chiedendomi ripetutamente soldi. La ginecologa dell’ospedale non mi aveva accennato ad ulteriori problemi e sono convinta che la versione del marito non fosse la verita’, a meno che il viaggio di due giorni in pullman, con S. convalescente, non avesse determinato una complicanza di qualche tipo a breve distanza dall’intervento.
Riassumo alcuni motivi di grande disagio davanti a queste persone :
– la sensazione di impotenza, come singoli, davanti a problemi molto grandi (assenza di casa, di lavoro e di abitudine al lavoro, analfabetismo, atteggiamento di inedia rafforzato dall’accattonaggio, abitudine ad alzare la posta della richiesta ad ogni richiesta esaudita, come in una sorta di ineluttabile ripetizione dello stesso copione)
– l’assenza o la insufficienza di ”progetti “ da parte delle istituzioni per queste persone; si ha l’impressione che l’accattonaggio rimanga l’unica forma di sopravvivenza loro concessa, anche perche’ gli antichi mestieri Rom (calderai, commercianti di cavalli..) sono ormai esauriti
– le difficolta’ nel rapporto personale, derivanti sia dai nostri indubbi pregiudizi sia dalla non disponibilita’ ad adeguarsi a un codice di regole da parte di molti Rom.
Rimangono quindi piu’ domande che risposte, al termine di questo breve percorso di intersezione fra culture ancora prevalentemente sconosciute.