Il volto giovanile della migrazione attuale
Pubblichiamo la relazione che Padre Aldo Skoda* ha tenuto a Firenze, in occasione dell’incontro di Formazione e di Progammazione degli Assistenti e Collaboratori dell’Ufficio della Pastorale dei Migranti della Diocesi.

Rusiriru dancing group, giovani dello Sri Lanka e italiane
Una panoramica del fenomeno
Per quanto riguarda il quadro nazionale, secondo i dati Istat gli stranieri residenti sono oltre 4 milioni contri i 1,3 milioni del 2001 e la percentuale di coloro che hanno meno di 18 anni è di circa 24%. Dai dati si evince inoltre che quasi i 2/3 dell’incremento annuo del numero dei minori in Italia è dovuto alle nascite da genitori entrambi stranieri, senza contare i nati da coppie miste. Se si tiene conto dell’andamento delle nascite da genitori stranieri negli ultimi anni, il dato è più che triplicato passando dal 4% del 1999 al 12,6% del 2009. Un ulteriore dato significativo per comprendere la realtà alla quale ci riferiamo riguarda quello che viene definito il livello di fecondità e che rileva la media dei figli per ogni donna. Negli ultimi dati ufficiali Istat disponibili risulta che le donne italiane hanno avuto in media 1,32 figli a differenza delle donne di cittadinanza non italiana che hanno una media di 2,31 figli. Nell’insieme, tra nati in Italia e ricongiunti, i minori non comunitari sono circa 1 mil (quasi il 25% dei soggiornanti) e si può stimare che il numero dei minori comunitari sia di circa 250mila.
Molto significativo è stato il numero dei bambini nati in Italia da genitori stranieri, 79.894 (14,9% di tutte le nascite), cui si aggiungono i 26.714 figli di coppie miste (il 5% del totale). Con riferimento alle nazionalità delle madri ai primi posti ci sono le romene (19.415 nati nel 2012), le marocchine (12.829), le albanesi (9.843) e le cinesi (5.593).
Nelle aree del Paese dove l’immigrazione si concentra maggiormente, ossia il Nord, e in misura minore il Centro, i dati sono molto significativi. Nel Nord più di 1 nato su 4 ha almeno un genitore straniero. Oltre 1 nato su 5 nel 2012 è di cittadinanza non italiana in Emilia Romagna, Veneto e Lombardia. In alcune città però la percentuale supera di gran lunga il dato nazionale arrivando sopra il 30% delle nascite come nelle province di Mantova, Brescia, Asti, Alessandria, Piacenza e Modena.
“Nascere in Italia” non basta e tantomeno “arrivare” basta. In un sondaggio ISTAT del 2012 “I migranti visti dai cittadini”, si rileva che i figli dei migranti e in particolare quelli nati in Italia non vengono più visti come un problema e certamente la loro crescente presenza nelle scuole, nel vicinato o in altri contesti di vita, il calo demografico e dell’età media possono essere alcuni fattori di cambiamento di percezione e d’immagine.
Spesso però si vede erroneamente in queste giovani generazioni il superamento delle difficoltà dell’immigrazione ipotizzando anche la scomparsa di servizi ad hoc. Ma nell’abbandono di iniziative che promuovano la partecipazione è da cercare anche l’arresto o il fallimento di alcuni percorsi di mobilità sociale ascendente. A questo quadro vanno aggiunti i minori non accompagnati e l’universo dei cosiddetti “orfani bianchi” ossia i figli lasciati nel paese d’origine. Recenti studi hanno addirittura coniato una nuova “sindrome Italia”, grave sindrome depressiva rilevata in molte madri ma grazie anche a studi transnazionali, anche nei figli lasciati in casa in quanto si sentono responsabili della partenza dei propri genitori. Si arriva anche a forme gravi di manifestazione come il suicidio.
Questi e altri dati sottolineano un fatto fondamentale: la nuova generazione dei giovani, ricongiunti o nati in Italia, necessita di una maggiore attenzione e investimento per diventare una risorsa per il futuro del Paese. La scuola certamente è un ambito di analisi e intervento privilegiato ma non esclusivo. I contesti familiari, gli innumerevoli luoghi di ritrovo naturali, compreso quello virtuale, devono poter essere parte di una visione ampia che supera il problema della cittadinanza.
Se da una parte la questione rimane un punto focale e che necessita una soluzione grazie anche al dibattito pubblico suscitato, dall’altra esperienze europee come in Francia o Gran Bretagna hanno dimostrato che possedere un passaporto non si traduce automaticamente in un inserimento sociale soddisfacente.
I dati finora presentati riflettono una realtà molto significativa dal punto di vista demografico e certamente in costante evoluzione. La presenza delle famiglie immigrate e dei loro figli non può più essere considerato un fenomeno emergenziale, ma parte del nuovo panorama socio-culturale dell’Italia e quindi un fenomeno strutturale. Inoltre la sfida, che i figli dei migranti pongono, specie minori, riguarda in particolare anche la fatica di una collocazione giuridica che spesso si trasforma anche in frammentazione identitaria e che può portare domani a una marginalità sociale. Sostenere le famiglie nel loro ruolo genitoriale in bilico tra due culture, ma soprattutto i giovani, significa creare “spazi di cittadinanza” capaci di offrire quel sostegno necessario per una “integrazione sostenibile”.
Nell’introduzione all’edizione italiana dell’opera di Sayad, “La doppia assenza”, una citazione del sociologo e filosofo francese Pierre Bourdieu, rende molto bene l’idea stessa del titolo del libro ed espone chiaramente, anche se con tratti a volte filosofici, la condizione problematica che viene a crearsi nel migrante quando sono ormai aumentate le distanze geografiche e via via anche quelle relazionali e culturali con il proprio paese di partenza, ma allo stesso modo permangono ancora le distanze e le frontiere mentali e culturali con il paese di accoglienza, lasciandolo in una sorta di non-luogo. Questo sentirsi fuori luogo rispetto all’identità e appartenenze crea quella particolare situazione che viene definita dall’autore “doppia assenza” e che genera, conseguentemente, esclusioni sociali dagli ambienti di vita e che rappresentano una vera sfida a ogni progetto di inclusione o integrazione sociale. Seppure non del tutto condivisibile, questa posizione “forte” rimane una critica attiva ed efficace verso qualsiasi progetto o intervento che non fa altro che perpetuare questa doppia assenza e rimane comunque una sfida concreta sociale e pastorale nel tentativo invece di costruire percorsi e luoghi dove le persone possano sperimentare ed esprimere la loro identità attraverso la molteplicità delle appartenenze senza per questo viverle in maniera conflittuale. Il processo diventa ancor più riconoscibile quando parliamo dei figli o dei giovani migranti che, più di tutti gli altri componenti della famiglia a causa anche di particolari dinamiche psicosociali ed evolutive, sono esposti al rischio di esclusione reale o simbolico da un universo socioculturale appartenente ai propri genitori ma anche da quello nel quale attualmente vivono.
Cominciare dalla metodologia.
“Niente è più pratico di una buona teoria” – Kurt Lewin
Esiste oggi una tendenza di presentare i fenomeni sociali e umani in una serie di numeri che possono essere manipolati con regole statistiche e che in qualche maniera possono offrire proiezioni valide per il futuro, salvo imprevisti. Tale processo, fondamentale per quanto riguarda lo studio di fenomeni sociali complessi coma la mobilità umana, ci offre diversi spunti di riflessione. Ciononostante i numeri sono insufficienti per dare un quadro completo sul fenomeno migratorio. Infatti, se da una parte esiste la possibilità della lettura quantitativa di tale fenomeno, dall’altra bisogna tenere presente anche una lettura qualitativa della realtà che necessariamente chiede di tenere conto della percezione, delle complesse dinamiche relazionali e sociali. È ormai un classico della letteratura della psicologia sociale il lavoro di Bruner e collaboratori [Bruner, 1992] sul fenomeno della sovrastima percettiva, ossia l’importanza che i processi di categorizzazione esercitano sulla percezione e sull’organizzazione della conoscenza tanto da permettere agli individui di andare “al di là dell’informazione data”:
– I termini “cultura”, “nazione” sono difficili da definire in maniera univoca. Presumere che questi termini indichino qualcosa di durevole, ontologico, materiale, geopolitico e statico significa ignorare l’elemento di costruzione delle appartenenze e identità, la dimensione storica e narrativa. La “cultura” e la “nazione” sono qualcosa di più di un semplice concetto geografico. Inoltre essa non è da considerarsi in maniera monolitica, data una volta per sempre, ma continuamente dinamica nel suo nascere, evolvere ed eventualmente mutare.
– Un altro limite legato al primo riguarda anche l’immagine stessa del migrante. L’immigrato genitore o minore viene considerato, a volte anche dalle ricerche, come un soggetto dotato di caratteristiche proprie, definite e chiare, senza notare che spesso le valutazioni o i risultati delle ricerche sono frutto del coinvolgimento di soggetti che provengono da molti paesi diversi e contesti culturali a volte totalmente differenti. Risulta quindi riduttivo parlare in genere di “giovani migranti” senza specificare meglio il contesto socio-culturale di riferimento; una dinamica relazionale sia famigliare sia sociale viene vissuta diversamente da uno che proviene dalla Colombia rispetto a un altro dall’India.
Ciononostante la generalizzazione, un processo comunque utile alla ricerca e alla presentazione, deve essere fatta e compresa nel rispetto di questa complessità e di questi limiti. Sempre più anche la ricerca scientifica prende coscienza di questa dimensione: non solo il dossier statistico Caritas-Migrantes del 2012 sottolineava nella presentazione questa tendenza attraverso il titolo “Non solo numeri”, tendenza che è sempre più visibile anche nell’ultimo rapporto presentato di recente, corredato di storie di vita e buone pratiche; ma anche a livello internazionale si sottolinea sempre più il concetto di benessere della persona testimoniato anche dal titolo dell’ultimo World Migration Report del 2013 intitolato proprio “Benessere dei migranti e sviluppo” che può essere certamente considerato un buon punto di partenza per futuri sviluppi.
Alcune dinamiche che richiedono attenzione
Nonostante le diversità di percorsi, motivazioni e approdi, esiste la possibilità di coagulare attorno ad alcune dinamiche che si presentano con una certa regolarità nella mobilità transculturale e transnazionale. Il medico e psichiatra Carlos E. Sluzki ha proposto un modello in diverse fasi che mira a offrire criteri di lettura e interpretazione dei processi senza addentrarsi nelle diversità caratterizzate culturalmente proponendo così una lettura “cultural free”. Tale modello comporta in sé il limite che deriva dal rischio di eccessiva generalizzazione ma lo abbiamo scelto perché può essere uno strumento utile di analisi e di lettura ed ha mostrato un alto grado di validità e affidabilità anche nell’esperienza concreta con molte famiglie migranti, particolarmente con i loro figli. Sono riconoscibili 5 stadi:
Stato preparatorio – È la fase di preparazione e consultazione che porta i membri della famiglia alla decisione di lasciare la propria casa ed emigrare.
Atto migratorio – La migrazione è una transizione dove i rituali comunitari, nel senso antropologico del termine, sono pochi o assenti sia nell’atto di partenza che di arrivo. Nella maggior parte delle culture mancano dei rituali codificati di separazione per cui le famiglie non hanno il conforto di riti particolari e quindi vengono lasciati soli di fronte all’atto concreto della migrazione. Questo favorisce la creazione di forti alleanze tra le persone che vivono le stesse esperienze e legami che permetteranno l’instaurarsi di una nuova solida rete di relazioni. Le modalità e gli stili dell’atto migratorio variano molto non solo nei percorsi geografici che compiono: alcune famiglie sin da subito vogliono tagliare i ponti con il passato, altre sperano in un ritorno, altre ancora mandano prima qualcuno per preparare il terreno all’arrivo del resto della famiglia.
Periodo di sovracompensazione – Nella primissima fase di inserimento nella nuova realtà socioculturale, il bisogno di far fronte ai bisogni primari e concreti (es. casa, lavoro, documenti, ecc.) ha la precedenza. I sintomi di disagio e i conflitti derivanti rimangono silenti poiché fondamentale per sopravvivere nel nuovo ambiente è la compattezza del gruppo familiare. In alcuni casi la necessità di coesione rischia di trasformarsi in eccessiva difesa delle regole familiari, una polarizzazione dei ruoli all’interno di essa e una conseguente diffidenza se non addirittura rifiuto di modelli e comportamenti ritenuti estranei ovvero minacciosi per la famiglia o un suo membro. L’autore si focalizza su dinamiche relazionali rilevando le difficoltà che si creano ma anche le strategie adattive messe in atto soprattutto quelle di focalizzarsi su bisogni concreti appunto, spostando la manifestazione del disagio o della crisi in una fase successiva.
Periodo di decompensazione o crisi – Questa fase risulta cruciale all’interno del processo migratorio sia per i risultati che produce come per le dinamiche che si instaurano per raggiungere quei risultati. È una fase definita “tempestosa” dall’autore. I membri della famiglia tentano di inserirsi nel nuovo contesto cercando un non facile equilibrio tra il bisogno di mantenere viva e salvaguardata la propria identità e quello di assumere tratti della nuova società ed essere accettati dai suoi componenti. È un periodo segnato da conflitti anche aperti e di solito è in questa fase che il sintomo del disagio diventa palese e intercettabile da coloro che stanno vicino alla famiglia per vari motivi (il comportamento dei figli in scuola, all’oratorio, le preoccupazioni dei genitori per i propri figli espresse al parroco o all’assistente sociale, ecc.). Promotori della crisi risultano essere spesso i figli che attraverso la loro protesta intergenerazionale fanno riemergere le problematiche delle differenze culturali spesso polarizzandole. In questa fase è necessario che la famiglia rielabori il conflitto e di conseguenza generi un nuovo sistema di relazioni e regole che rende possibile la creazione di nuove norme e la loro accettazione. La comprensione e la funzione dei ruoli e quali dinamiche si instaurano all’interno del gruppo familiare sulle decisioni da prendere, sembrano centrali in questa fase. L’idealizzazione o il rifiuto sono due strategie che spesso vengono usate per comprendere o vivere sia la propria sia l’altrui cultura. In questa fase così delicata specie vissuta dagli adolescenti in maniera più acuta, è alto anche il rischio di manifestazioni di comportamenti antisociali o di dipendenza.
L’impatto transgenerazionale – Tale fase è direttamente collegata a quella precedente e al di là delle modalità di soluzioni trovate si può affermare che le famiglie nella loro funzione di agenti socializzanti introducono non solo alle norme sociali e culturali, ma creano anche una loro propria specifica visione del mondo e della propria storia. Gli effetti della transizione migratoria specialmente quando il processo di integrazione si è evitato, si ripercuotono generalmente sulle generazioni successive. Frequentemente in questa fase si manifestano dei conflitti culturali (in determinati casi comportano anche aspetti religiosi) tra le generazioni di uno stesso nucleo familiare. Questo è dovuto al fatto che spesso la prima generazione ha taciuto o evitato il confronto e il conseguente incontro/scontro tra i valori della propria cultura di riferimento e gli stili di vita con quelli, spesso contrastanti, del nuovo ambiente socioculturale. Oppure semplicemente ha rimandato la questione, la quale viene ripresa appunto dalla generazione successiva.
Il modello presentato ha il valore di essere molto concreto e di descrivere la storia migratoria come un processo dinamico e fondamentalmente comunitario o comunque con riferimenti comunitari e inoltre offre una chiave concreta allo studioso o all’operatore per valutare ed eventualmente intervenire in maniera propria della fase in cui si trova la famiglia in quel momento concreto.
L’identità etnico-culturale diventa una variabile chiave da indagare nella vita dei figli dei migranti. Tale variabile va vista secondo gradi di continuità/discontinuità sia con il contesto socio-culturale e religioso della famiglia di provenienza, che con il nuovo contesto ospitante. Il confronto tra mondi culturali diversi presenta difficoltà e opportunità proprie ed è caratterizzato dal processo di negoziazione. La famiglia migrante e in particolare i figli devono affrontare un adattamento rispetto alla società ospitante in termini non solo di lingua, ma anche di atteggiamenti, comportamenti, usi, costumi, regole sociali e nello stesso tempo preservare una continuità con le proprie tradizioni culturali. Non sempre è facile gestire questa dicotomia tra identificazione e differenziazione specie negli adolescenti (1). Essi devono affrontare sfide riguardanti le richieste che vengono dal mondo privato della famiglia e il mondo pubblico rappresentato dalla scuola, dall’oratorio o da altri contesti di socializzazione, trovandosi spesso in un processo di acculturazione dissonante.
Il concetto di identità ha subito continui mutamenti nella storia del pensiero sin dall’antichità, ma il crescente scambio globale, non solo in termini economici e di commercio e soprattutto di mobilità umana volontaria o forzata, ha cambiato decisamente la nostra percezione del mondo e di noi stessi.
Ogni giorno siamo in contatto con un multiculturalismo crescente che fa delle città un agglomerato di colori ed etnie diverse. In questa società dei diversi ciò che si lamenta maggiormente è la perdita È da notare, infatti, che al crescente contatto tra popoli e culture non sempre fa seguito un dialogo costruttivo, ma spesso una difesa del proprio spazio materiale o culturale arrivando a innalzare anche barriere fisiche oltre a quelle legislative e culturali.
L’identità, nella società dell’incertezza, viene continuamente modellata, riformulata e addirittura reinventata e questo deve aiutare a non considerare solo il quadro di riferimento etnico-culturale ma anche quello più ampio nel quale, almeno nelle società occidentali come l’Italia, anche i figli dei migranti sono inseriti.

Comunità cattoliche africane
Nel 1971 lo psicologo Willim Ryan pubblica una importante opera intitolata “Blaming the victim” (Colpevolizzare o Incolpare la vittima) che avrà una diretta influenza nello sviluppo integrato della visione, analisi, studio ed intervento in campo psicosociale. L’idea di fondo dell’autore era la critica di un sistema di riduzione dei conflitti o problematiche che si manifestavano a livello sociale, in particolare nei contesti più disagiati ed emarginati, ad un mero problema psicologico individuale. Il rischio è di trasformare il disagio della persona (vittima, nel linguaggio dell’autore) come manifestazione di fattori personali (es. incompetenza, ignoranza, povertà, estraneità, ecc.). La causa di quello stesso disagio quindi è da ricercare esclusivamente nell’individuo, scagionando così da ogni responsabilità altri fattori e attori sociali. L’intervento di soluzione che ne consegue ovviamente perpetua semplicemente questa visione, incolpando esclusivamente l’individuo invece di analizzare nel suo complesso il contesto situazionale, sociale e culturale all’interno del quale si è manifestato il problema. Concetti come potere (culturale, della maggioranza, economico, di status, ecc) o resistenza al cambiamento, sono fortemente richiamati ed esprimono molto bene anche dinamiche che si instaurano in contesti migratori dove spesso il soggetto, come può essere il figlio di migranti, è “colpevolizzato” o semplicemente indicato come causa problematica senza per questo responsabilizzare i vari contesti relazionali e sociali nei quali lui stesso è inserito e condivide con altri soggetti.
L’apertura verso un sistema più integrato dove l’individuo è visto anche in riferimento ai vari network relazionali nei quali è inserito, appare una via privilegiata per affrontare situazioni e fenomeni sociali complessi in particolare quelli legati alle migrazioni. Tale visione è stata definita dalla scuola di Chicago come human ecology (visione di un’ecologia umana). Nata negli anni ’20-‘40 come studio di fenomeni sociali in riferimento alle comunità locali che le vivevano, mette al centro l’analisi dell’ambiente (ecosistema) particolare entro il quale l’individuo è inserito e che produce determinate condizioni che poi influenzano le persone anche loro malgrado. Più che un paradigma metodologico e interpretativo, la visione ecologia rimane come attenzione all’interdipendenza che si crea non solo tra le persone in una determinata comunità, ma anche con l’ambiente sociale, istituzionale, culturale, religioso, ecc. Levine e Perkins 5 offrono alcune indicazioni che possono chiarire meglio il concetto:
– l’influenza dell’ambiente fisico e sociale esercita sul comportamento
– l’interdipendenza tra gli individui nell’ambito di specifici gruppi sociali intesi come comunità
– nell’ambito delle scienze sociali e in particolare la psicologia, si intende per ecologia lo studio dell’ambiente e dei luoghi di vita rilevanti e significativi dove una persona è inserita e con i quali interagisce
– una prospettiva di ricerca e di intervento che si indirizza a unità più larghe che non il solo individuo
– un contesto di ricerca-intervento mirato a promuovere una collaborazione attiva e partecipativa tra tutti gli attori sociali interessati
Per una metodologia dell’integrazione attraverso la mediazione
In questa prospettiva, l’integrazione viene offerta come dinamica di superamento dello stato di distacco e perdita:
- L’integrazione rimanda al concetto di “integrità” il cui significato è vivere ed esprimere la propria individualità, appartenenza, storia e lingua, in un processo dinamico di cambiamento e confronto che permette a ciascuno di evitare gli estremi di negazione delle proprie origini come il non rimanerne ostaggio.
- L’integrazione è un concetto multidimensionale che ha a che fare con l’acquisizione di capacità, competenze e saperi, ma anche con le relazioni, gli affetti, la ricchezza e l’intensità degli scambi.
- L’integrazione è un progetto e un processo che si costruisce quotidianamente attraverso innumerevoli aggiustamenti di rotta, soste, successi e a volta anche fallimenti.
- L’integrazione è un progetto intenzionale, che non avviene per caso, per forza d’inerzia, con il passare del tempo, ma che deve essere deciso, seguito, sostenuto con attenzione, convinzione, competenze e risorse e una robusta rete di sostegno formale e informale.
- L’integrazione è un percorso che si costruisce insieme e che deve coinvolgere, come protagonisti educativi alla pari, diversi attori come la scuola, la famiglia migrante, le istituzioni, facendo attenzione alle reciproche aspettative.

Comunità cattolica filippina
All’interno del processo integrativo un ruolo fondamentale gioca innanzitutto la mediazione che richiama immediatamente un’interazione dell’individuo con un contesto specifico e con altri individui. Questo sottolinea il fatto che sono le persone i veri mediatori, protagonisti o narratori della propria cultura e che ognuno è portatore di una certa originalità che non può essere ridotta semplicisticamente a categorie di appartenenza culturale. Anche se il contesto storico-socioculturale esercita una fondamentale influenza sullo sviluppo individuale, questo processo non annulla le caratteristiche del singolo e l’originale sintesi che si produce di questa dinamica relazionale. Spesso si usa il termine specifico di agency per determinare questa capacità dell’uomo di agire nel proprio ambiente ed eventualmente modificarlo e sfruttarlo per i propri scopi. Questo termine, reso in italiano spesso con “agentività” è fondamentale per comprendere l’azione che il singolo ha all’interno delle dinamiche di mediazione: la agency riassume gli elementi che ci impediscono di vedere la cultura come un “distintivo di gruppo” […]. È questo il motivo per cui ogni cultura, vista dall’interno, perde la sua omogeneità, cessa di essere un insieme coerente e si avvia ad assomigliare piuttosto al modo in cui ciascuno di noi vede, […]. Permette di cogliere il cambiamento che l’azione degli agenti introduce incessantemente nella società.
Tale concetto è chiave nella pratica della mediazione culturale, proprio perché aiuta a vedere l’individuo non come soggetto passivo al quale si possano applicare le varie etichette socioculturali, ma piuttosto come un agente attivo semmai da accompagnare nel nuovo percorso di dialogo con un altro ambiente culturale.
In linea con quanto detto sopra, si può introdurre un altro elemento molto caro alla psicologia di comunità, che esplicita in maniera attiva la capacità dell’individuo di agire e influenzare l’ambiente e il contesto circostante in qualità di membro di quella stessa comunità. Si tratta del concetto di partecipazione: si riferisce all’impegno e alla responsabilità del singolo all’interno di un progetto volto a raggiungere un obiettivo collettivamente determinato. […] Un processo in cui i soggetti prendono attivamente parte ai processi decisionali nelle istituzioni, nei programmi e negli ambienti che li riguardano. Si tratta di un processo fondamentale se vogliamo costruire un vero percorso di mediazione interculturale dove l’obiettivo non diventa quello dell’assimilazione, ma l’integrazione intesa come una nuova forma di convivenza che tiene conto degli elementi di ciascuna parte coinvolta. Questo richiama un altro elemento, ossia il concetto di potere. Spesso le dinamiche socio-culturali tra una popolazione autoctona e un’altra migrante, e in generale di due distinti gruppi, si definiscono non in relazione a processi di vera negoziazione quanto piuttosto a un rapporto di forza determinato per esempio dal peso demografico, status sociale, accesso alle istituzioni dove avvengono le decisioni ecc. Non è nostro intento definire e analizzare il concetto di potere quanto piuttosto sottolineare che una vera mediazione non può, ancora, essere vista come un processo a una direzione ma deve coinvolgere nello spazio negoziale tutti gli attori. Per illustrare meglio questa realtà si usa il termine di empowerment, che in italiano significa letteralmente “aumentare, crescere in potere”. Questa dinamica è legata al fatto che spesso le persone o le classi più svantaggiate dal punto di vista sociale, culturale ed economico non hanno le stesse opportunità di accesso alle varie risorse. Lo psicologo Rappaport, che per primo ha definito il concetto, lo pone come fondamento di tutta la pratica orientata al lavoro sociale o comunque a favore di una comunità. Applicare quindi il concetto di empowerment significa secondo Rappaport: identificare, facilitare, creare contesti in cui soggetti altrove isolati e senza voce, per vari motivi marginali, ed anche organizzazioni e comunità, riescano a trovare voce, ad ottenere riconoscimento e possibilità di influenza sulle decisioni che riguardano la propria vita.
L’empowerment concerne per definizione coloro che sono esclusi dalla maggioranza. Si tratta di un processo capace di attivare risorse già presenti negli individui e nei contesti e partire da quelli per costruire le basi di una vera mediazione e negoziazione culturale in vista di una positiva e mutuamente accettabile integrazione.
Conclusione
Il processo di cambiamento che possiamo definirlo anche transizione identitaria nella prospettiva di mediazione intra e inter culturale, non è semplice e automatico. È necessario un accompagnamento che assicuri ai soggetti coinvolti gli strumenti per poter percorrere questo passaggio verso l’integrazione in modo da mantenere il legame con la cultura di appartenenza e allo stesso tempo essere capaci di affrontare la cultura del contesto dove vivono. Il concetto di competenza interculturale può essere qui riferito sia agli individui sia vivono questo processo di inserimento, come ad attori e professionisti istituzionali o meno che accompagnano questo processo.
Da quest’ultimo appunto capiamo l’importanza della formazione degli attori sociali (le famiglie, i singoli, rappresentanti delle istituzioni, operatori sanitari, insegnanti, associazioni o attori legati al mondo del lavoro, ecc.) che entrano in contatto con soggetti migranti o comunque con persone di altre culture per promuovere la socializzazione e il benessere come prerequisito del loro inserimento nel contesto sociale. Ma questo a volte può dipendere molto dalla soggettività di chi propone, dalle competenze e sensibilità, dal particolare clima politico ecc. Una maggiore attenzione in questo senso è un investimento fondamentale per la coesione sociale e per la sicurezza soprattutto se è rivolta alle giovani generazioni.
L’attenzione agli individui, in definitiva, deve essere accompagnata dal sostegno e l’attenzione verso i contesti dove questi individui hanno vissuto e vivono. Le competenze individuali e istituzionali sono quindi da incoraggiare e potenziare, come strumento valido per l’integrazione.
Aldo Skoda
Vicepreside del SIMI presso PUU
aldopas@live.com
(1) Cfr. C. GIULIANI, A. ZAMPERINI, «Transizione migratoria: trasformazioni familiari e identitarie» in Rivista di Studi Familiari, 2, 2010, 136-145.
* Dopo gli studi di filosofia e teologia, ha conseguito la laurea in Psicologia all’Università Cattolica “Sacro Cuore” di Milano, è docente stabile e Vice-Preside dello Scalabrini International Migration Institute (SIMI) di Roma. Nella Diocesi di Brescia è stato vice direttore della “Migrantes” e responsabile della pastorale dei migranti. È inoltre professore a contratto dell’ISSR presso l’Università Cattolica “Sacro Cuore”, sede di Brescia. Tra le sue pubblicazioni: Migrazioni e Nuova Evangelizzazione, UUP 2013; e, insieme a Fabio Baggio, Mediterraneo, crocevia di popoli, UUP 2012