Medico e suora, le ”eroine dei profughi”. La storia di Alganesh e Azezet
Da un confine all’ altro dell’Africa fino ad Israele e la Cisgiordania, sono riuscite a salvare centinaia di vite umane e a dare un’eco internazionale alle torture subite dai migranti. “Oggi queste violenze sono ancora sotto un silenzio inspiegabile, bisogna alzare la voce”
07 marzo 2014
Azezet Kidane |
ROMA – C’è chi non esista a definirle le “eroine” dei profughi: due donne che, con la sola forza delle loro azioni, sono riuscite a strappare dalle mani dei trafficanti centinaia di vite umane e a dare alle storie atroci di queste persone un’eco internazionale. Di certo, quello che fanno Alganesh Fessaha e suor Azezet Kidane Habtezghi, da un confine all’altro dell’Africa fino ad Israele e la Cisgiordania, va al di là del semplice gesto umanitario. Il loro nome è ormai un simbolo di speranza per chi fugge dai paesi in guerra e tenta la fortuna per arrivare in Europa.
Medico eritreo, Alganesh Fesseha è arrivata in Italia una trentina di anni fa, ma vive tra l’Europa e l’Africa, impegnata in un’azione costante di salvataggio per strappare ai mercanti di morte centinaia di ragazzi catturati in Sudan ma anche nel Sinai. Ha cominciato la sua battaglia nel 2003, quando, insieme a un gruppo di medici, professori universitari e avvocati ha fondato ad Abdijan, in Costa d’Avorio, l’associazione Gandhi, un’ong che lavora sull’ abbandono dei bambini e sul disagio delle donne. Qui Fesseha è venuta a conoscenza della tragedia dei profughi del Corno d’Africa e dell’Africa sub-sahariana: eritrei come lei, ma anche sudanesi, etiopi, somali, maliani, che compiono un esodo disperato, fuggendo attraverso il Sudan, l’Egitto, la Libia, il Sinai. Ragazzi giovano che finiscono spesso in mano a trafficanti e beduini, che li vendono come merce o tentano di ricavarne un riscatto di migliaia di dollari. E così le famiglie si indebitano fino al collo per riuscire a liberarli ma quando non ce la fanno i migranti vengono ceduti al mercato della prostituzione o sacrificati al mercato della vendita di organi per i trapianti clandestini. “Vengo da un paese in cui ogni mese tremila giovani sono costretti a fuggire a causa di un regime militare e dittatoriale che li costringe al servizio militare a vita: una vera forma di schiavismo umano – racconta Fessaha –. Questi ragazzi passano la frontiera e arrivano in Sudan, dove con la complicità di alcuni funzionari del governo vengono ceduti ai trafficanti. Qui inizia la loro odissea: venduti e rivenduti di volta in volta ai mercanti egiziani fino al confine con Israele, dove c’è un vero e proprio smistamento di gli essere umani. Ma durante tutto il percorso i profughi subiscono torture disumane, che nessuno troverà mai in nessun libro di storia”.
Fesseha porta sempre con sé le foto che testimoniano le violenze: corpi martoriati, scuoiati vivi, bruciati, mozzati. “Le donne vengono violentate anche 3/4 volte al giorno, i ragazzi sodomizzati, anche quando sono bambini piccoli – continua – fanno colare sulla loro schiena la cera rovente delle candele o vengono lasciati per ore appesi con la testa in giù finché non svengono, e poi li picchiano ancora e ancora e ancora”. Alle torture si aggiunge l’espianto degli organi: sono tanti i corpi ritrovati nel deserto a cui mancano le cornee o tutti e due i reni. Per far fronte a questa situazione Fesseha ha deciso di impegnarsi in prima persona e finora è riuscita a libera 2.200 persone tenute prigioniere dai mercanti e 550 dai beduini, “ma senza mai pagare alcun riscatto” precisa. Ad aiutarla nell’impresa uno sceicco salafita. “Questi ragazzi mi chiamano notte e giorno e mi chiedono di aiutarli – racconta – io mi faccio dare le indicazioni del luogo dove sono tenuti prigionieri e così proviamo a liberarli”. Il primo passo lo fa lo sceicco, che una volta individuata la casa-prigione, va dal proprietario e cerca di convincerlo a liberare gli ostaggi facendo leva sui precetti del Corano. Ma se non funziona scatta un vero e proprio blitz : “io lancio un segnale in tigrino e i ragazzi prigionieri corrono verso l’uscita, e noi li facciamo salire in macchina e li portiamo via. Se i guardiani si svegliamo spesso ci sparano – dice candidamente – ma per ora per fortuna non è successo niente. Non saranno comunque loro fermarmi”. L’ultima operazione di salvataggio è di questi giorni: la liberazione, con l’aiuto dell’esercito egiziano, di un sottufficiale eritreo fuggito dalla dittatura di Isaias Afewerki ma intercettato dai predoni poco dopo aver varcato il confine con il Sudan. Per il suo impegno Fessaha è stata insignita dell’Ambrogino d’oro.
Sul versante opposto , tra la comunità di Betania, in Cisgiordania e la clinica di Medici per i diritti umani di Tel Aviv, lavora invece suor Azezet, una suora comboniana di origine eritrea. Arrivata nei territori occupati per prestare servizio di assistenza ha iniziato mano mano a raccogliere le storie atroci delle torture subite dai migranti nei loro viaggi, fino a raccoglierle in un rapporto, che ha avuto una rilevanza internazionale. “Quando sono arrivata la mia funzione era di fare da traduttrice per i profughi del Corno d’Africa – racconta – ma il medico della clinica di Tel Aviv si era accorto che queste persone avevano sul corpo segni inspiegabili. Così nel 2010 ho iniziato fare interviste alle persone nuove che arrivavano, ma neanche io volevo credevo a quello che vedevo e sentivo: persone senza mani, distrutte, bruciate vive, senza contare le tante donne che arrivavano incinte di uomini di cui non avevano neanche visto il volto. Violenze disumane che ho deciso di raccogliere per far sapere al mondo quello che accadeva. Del rapporto se ne è parlato molto ma oggi queste torture sono di nuovo sotto un silenzio inspiegabile: non c’è interesse perché sono poveri africani, trattati come al tempo della schiavitù. Ma non possiamo accettare che succedano queste cose nell’indifferenza generale”. Ai profughi suor Azezet ha dedicato la sua vita, oggi si divide tra il centro di Tel Aviv e un centro per donne abusate: “sono persone disperate che si vergognano di quello che hanno subito – racconta – ma in molte hanno deciso di non abortire, così le aiutiamo a dare un futuro ai loro figli, l’unica speranza che hanno dopo un vita di indicibili sofferenze”. Per questa sua attività suor Azezet ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali: come il premio Soroptimist della Valle d’Aosta e, insieme alla sezione israeliana di Medici per i diritti umani, l’Heroes Award assegnato dal Dipartimento di Stato americano in occasione del rapporto annuale sul traffico internazionale di esseri umani. (ec)
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